Ciao! Vi diamo il benvenuto al diciottesimo episodio di Filosofia dal Futuro!
Il futuro è sempre stato il tema centrale di questa newsletter, sin dal primo episodio. Infatti, il tema inaugurale di questo progetto è stato “Ecologia della Bellezza” di Vincenzo Grasso, in cui la parola chiave era Utopia
. Da allora, abbiamo sempre parlato di Filosofia “dal” Futuro. In questo episodio, cerchiamo di approfondire il discorso sull’utopia, ripartendo da quello che è il nostro manifesto
, e dialogando con uno dei filosofi che più hanno dedicato pagine alla riflessione utopica: Ernst Bloch. Da lì ci immergeremo poi nel cosmismo, nella lettura di Jameson e in Marx. Per finire, sveliamo il mistero - perché è filosofia “dal” futuro e non “del” futuro.
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Filosofia dal Futuro
di Marco Mattei
So far does utopia extend, so vigorously does this raw material spread to all human activities, so essentially must every anthropology and science of the world contain it. There is no realism worthy of the name if it abstracts from this strongest element in reality, as an unfinished reality
Ernst Bloch
Tutti gli esseri, per natura, desiderano conoscere il futuro
.
Lo desideravano i greci, che si recavano a Delfi per consultare l’oracolo, e lo desideravano i profeti cristiani, che annunciarono la venuta del regno. Lo desideravano gli egizi, che veneravano Thot, e lo desiderava Aristotele, che scrisse il de divinatione per somnum. Nulla, un tempo, veniva fatto senza prima interrogare un indovino. Così i membri dell’antica dinastia Qin, come gli Zhou prima di loro, si affidavano all’I Ching per prendere decisioni che avrebbero segnato la storia del loro popolo. Allo stesso modo, i grandi imperatori romani e persiani si circondavano di chiaroveggenti, occhi e bocche dal futuro, per guidarli nelle loro gesta. Conoscere il futuro era il desiderio dei mistici ebraici e di Keplero e Galilei, entrambi impiegati come astrologi di corte. Conoscere il futuro è l’ingenuo desiderio di ogni bambino e adulto: come sarò da grande? Quando morirò?
Tutti gli esseri
, per natura, desiderano conoscere il futuro.
Non solo umani, ma animali e piante, batteri e funghi. Da dove arriverà il prossimo predatore? Dove troverò la prossima preda? Le piante hanno elaborato un complesso sistema chimico di segnalazione del pericolo, per avvertire le altre foglie che qualche insetto sta arrivando per mangiarle, così da aver tempo per attuare una fitta rete di strategie difensive. Lo desiderano i virus e i batteri: dove si troverà maggior nutrimento? L’esistenza è un tentativo di domare il futuro. La conoscenza di ciò che sarà è al contempo obiettivo e presupposto di tutte le attività biologiche e cognitive nel cosmo.
Tutti gli esseri, per natura
, desiderano conoscere il futuro.
C’è chi crede che la funzione stessa della coscienza sia quella afferrare quest’inafferrabile. Sto parlando di psicologhe e psicologi, neurologhi, filosofe e scienziati rispettati, non cialtroni. Nelle scienze cognitive questa ipotesi viene chiamata predictive processing, processi predittivi. L’ipotesi può essere fatta risalire a Francisco Varela e Humberto Maturana, scienziati cileni, che pubblicarono nel 1972 Autopoiesi e Cognizione, e fu poi ripresa e magistralmente espansa dal neuroscienziato inglese Karl Friston e al suo principio di energia libera. L’idea che c’è alla base è che il cosmo è un’entità estremamente caotica. Pensateci: ogni giorno, ogni secondo, accadono infinite cose. Vivere, sopravvivere in un ambiente così imprevedibile deve essere difficilissimo. Cataclismi, predatori e inquinamento, complesse reazioni chimiche e biologiche. I primi esseri biotici erano esposti ad una quantità di rischi inimmaginabili, la perturbabilità della loro esistenza era al limite. Così, dice la teoria, i cervelli e la coscienza si sono evoluti come meccanismi predittivi: essere coscienti non significa altro che cercare di conoscere cosa accadrà nel breve futuro, così da anticiparlo e domare l’incertezza. Conoscere il futuro per sopravvivere.
Essere coscienti, per natura, significa desiderare di conoscere il futuro; conoscere il futuro è un desiderio
cosmico
.
C’è quindi un forte legame – spesso ignorato – tra futuro e coscienza, tra possibilità e speculazione, tra cosmo e desiderio. Dunque, a metà tra un manuale di divinazione e un trattato metafisico, tale nesso sarà il tema di queste pagine: incredibilmente, non appena si comprende appieno la portata di questa relazione, si apre un immenso abisso di riflessione filosofica inesplorata.
Tutti gli esseri, per natura, desiderano conoscere il futuro. E dunque, che futuro ci aspetta?
I nostri, sono tempi catastrofici. Nel migliore dei casi, il disastro climatico è imminente; nel peggiore, il punto di non ritorno è già passato. Allo stesso tempo, il mondo si trova ad affrontare una pandemia epocale, ed è diretto verso un periodo di grande crisi economica e politica. Le cose non sembrano affatto migliorare nel breve futuro: negazionismo climatico e guerre imminenti sono i temi che vanno per la maggiore. In altre parole, da qualche anno, praticamente ovunque, milioni di persone si stanno inconsapevolmente preparando al peggio. Nella testa degli esseri umani la prospettiva del disastro è immanente e così psicologicamente intollerabile che il cervello si sgretola, collassa: non è in grado di sostenerla. Sappiamo che il mondo verrà presto annichilito e dunque negare il collasso sembra l’unica forma di vita possibile. C’è chi parla di un ritorno a una nuova epoca oscura: il tradizionalismo, il fondamentalismo e le politiche regressive delle nuove destre stanno corrodendo l’età contemporanea dall’interno, limitandone le forze propulsive – piegando i mezzi tecnologici a fini militari, propagandistici e repressivi. Fenomeni climatici estremi, epidemie, eserciti che premono ai confini delle terre libere, corporazioni di avidi mercanti, crisi finanziarie, paranoie apocalittiche partorite da culti millenaristi… sono le piaghe divine che si abbattono su un pianeta martoriato. Le forze che governano i nostri tempi carichi di conflitti sono bigottismo e superstizione. In ogni parte del globo, i movimenti reazionari invocano la chiusura dell’epoca moderna e il ritorno a varie configurazioni precedenti. Non stupisce, dunque, la fascinazione del dibattito filosofico contemporaneo per un certo tipo di pessimismo filosofico. Gettato in questo mondo senza alcun avvertimento, l’essere umano si ritrova a dover affrontare una complessità ben oltre le sue capacità di comprensione, dei problemi probabilmente insormontabili che lo porteranno a morte certa, all’estinzione, non senza prima aver vissuto la sua vita intera in un sistema economico il cui unico scopo è quello di condannarlo al lavoro eterno, mungendone il nettare vitale, spremendo il corpo per ogni piccola goccia di guadagno, togliendogli qualsiasi forza creativa, qualsiasi giorno lieto della sua vita fino a lasciarlo spolpato in vecchiaia, sputandolo via quando ormai della sua vita non può far più niente. Tutto questo, per generare una ricchezza di cui lui o lei non godrà mai. Trapiantato in questo ambiente che non è per nulla simile a quello per cui l’umano si è evoluto, la sua unica speranza sembrerebbe la morte. Inevitabilmente, si arriva alla comprensione che l’esistenza è priva di senso, l’unico scopo di esserci è riprodursi e generare nuova vita priva di senso e ricolma di sofferenza, in un cieco e orrido procreare che in tempi cosmici rimarrà comunque intrappolato nel dolceamaro abbraccio della morte. Nel cosmo c’è solo competizione, competizione per la sopravvivenza, competizione per la riproduzione, competizione per quel lavoro che ti darà due spiccioli in più per poterti permettere quella vacanza di tre giorni in estate, competizione per lo status. Competizione che ti condurrà alla morte stressato, senza una comunità.
Lupo tra gli uomini-lupo.
Mai come ora c’è quindi bisogno di pensare un futuro alternativo, migliore, mai come ora c’è bisogno di lasciar fluire idee e speculazioni, di generare nuove forme di vita, nuove visioni radicali, nuovi modi di essere. Così, alla ricerca di una visione lisergica che abbia il potere di manifestare davanti a noi un’idea attraente di futuro, mi butto nella ricerca filosofica: chi, se non la filosofia, la speculazione incontrollata, libidinale, può fornirci un’ancora di salvezza? Eppure, incredulo, ogni libro, ogni testo che leggo sembra ignorare la questione. Dai classici dei colossali pensatori della tradizione occidentale, agli articoli su blog remoti ed esoterici, la questione sembra essere evanescente. Una domanda, quindi, rimane sempre più impressa nella mia mente, marchiata a fuoco, sanguinante, una cicatrice cognitiva. Diventa assordante, non riesco a pensare ad altro:
come mai la filosofia non si è mai occupata del futuro?
La letteratura straborda di opere sul futuro, al punto in cui esiste un genere interamente dedicato alla questione, la speculative fiction. L’arte ancor di più: disciplina cosmogonica per eccellenza, tutta la sua produzione – si potrebbe dire – è rivolta al futuro. Eppure, la filosofia tace.
Se si volesse delimitare un oggetto o un metodo proprio della filosofia, dare una risposta soddisfacente sarebbe impossibile: non c’è nulla di cui la filosofia non possa occuparsi – e infatti non c’è nulla di cui non si sia occupata, nella sua storia millenaria. Astronomia, psicologia, cosmologia, antropologia, ecologia… i problemi che i pensatori e le pensatrici hanno affrontato hanno dato origine, nel tempo, a infinite discipline che hanno percorso sentieri altrettanto numerosi. Lungi dall’essere morta, come qualcuno spesso sentenzia e qualcun altro più ignorantemente augura, la filosofia è viva oggi più che mai. Eppure, nel suo eterno indagare, è in realtà possibile trovare un argomento – forse l’unico argomento – di cui non si è inspiegabilmente mai occupata: il futuro. Ma qual è il senso allora di studiare – anzi – di fare ricerca in filosofia oggi, un’epoca dove la scienza e la tecnologia sembrerebbero molto più utili nel risolvere i problemi del cosmo?
È buio quando la nottola di Minerva comincia il suo volo. Le ombre si allungano, la notte incombe. La filosofia arriva sul far della sera. È Hegel a scrivere queste parole. Quello che vuole dire è che il compito della filosofia è spiegare il mondo: la filosofa è colei che è in grado di vedere l’ordine nel caos, di trasformare il mythos in logos. In tempi di confusione esistenziale, la filosofa prende in mano le redini del pensiero, e il suo compito è quello di comprendere e spiegare.
Pare però che la filosofia sia strutturalmente e concettualmente inadeguata ad indagare il futuro, questa terra feconda e meravigliosa: infatti, da quella notte milesiana di duemilaseicento anni fa, la riflessione filosofica si è costantemente posta come atto contemplativo, ossia, come una ricerca della verità. La realtà va indagata alla ricerca del suo principio primo, delle regole che la governano. Il pensiero si è così relazionato nei confronti del cosmo così come lo sguardo nei confronti di un paesaggio. La stessa parola teoria può essere fatta risalire al verbo greco theoreo, io osservo. Questo implica una concezione di profonda staticità del pensiero rispetto al mondo – una sorta di guardare ma non toccare metafisico – dove la verità è unica, immutabile, da sempre già presente. In una parola: passata. Il passato è quel luogo metafisico privilegiato verso cui abbiamo un accesso puramente da spettatori e che è immutabile, unico, e che ha determinato il nostro presente. Il modo filosofico di pensare la verità, al suo nucleo, è dunque lo stesso modo di concettualizzare il passato. Questa è la teoria che voglio sostenere: che il passato e la verità sono stati concettualizzati con la stessa metafora; ed è ora di superarla. La nottola di Minerva ne è, ovviamente, il più chiaro esempio: con questa metafora si vuole dire che la riflessione filosofica sorge solamente quando una civiltà ha oramai compiuto il suo processo di formazione, e dunque si avvia verso il declino. Così, si è sempre inteso che la filosofia non ha il compito di trasformare la società, di determinarla o guidarla, ma di spiegarla, e qualcosa può essere spiegato solo dopo che si è compiuto. In altre parole, un pensiero puramente contemplativo, come è stata la filosofia sinora, è per definizione un pensiero del contemplabile, e cioè del passato. L’altro grande esempio di questo modo di porre la riflessione è la teoria della reminiscenza platonica. Per Platone conoscere è ricordare; la conoscenza per Platone è anamnesi, cioè una forma di ricordo, un riemergere di ciò che esiste da sempre nell’interiorità della nostra anima. Nel Menone, Platone costruisce una teoria per la quale l’anima è immortale e rinasce più volte: pertanto, l’anima umana ha visto la realtà nella sua globalità. Apprendere, allora, consisterà nel ‹‹trarre da sé››, ovvero ricordare le verità già possedute. Questo spirito passatistico trova probabilmente il suo maggior sviluppo nella metafisica della “profondità” portata avanti dalla psicanalisi all’inizio del ‘900. L’inconscio è il paradigma della contemplazione della verità: non vi è modo di sfuggire alle grinfie tentacolari delle esperienze passate, delle stratificazioni morali e culturali del super-Io, dai traumi dell’infanzia. Ancora una volta, la verità del nostro presente è da ricercare nel passato; alla superficialità delle apparenze, va contrapposta una più “vera” natura profonda. Ma perché non è invece possibile rivendicare la superficialità dell'espressione metafisica? Perché ogni trasformazione, ogni preferenza, ogni cambiamento nella persona e nel cosmo devono essere tradotti nel disvelamento di una fantomatica "natura profonda"? Questo è lo stratagemma contemplativo per eccellenza, quello di relegare il momento di verità dell’esistenza in un luogo completamente inaccessibile, verso il quale siamo unicamente passivi, già determinati, non possiamo far altro che teorizzare, cioè guardare.
Dunque, con pochissime eccezioni, probabilmente solo una, nessuna filosofia si è mai veramente posta il compito di indagare il futuro. Da un lato, questo aspetto onnipresente dell’esistenza è infatti quel luogo cui siamo eternamente destinati, quella forza che senza via di scampo ci attira, l’incessante scorrere del tempo ci spinge verso di esso; d’altro canto, però, per questa sua stessa natura di non-ancora, il futuro è ciò di cui non c’è nulla di più ineffabile, è pura potenza, incertezza, apertura totale di possibilità. Ogni istante, nel divenire presente del futuro, nuova realtà viene a crearsi, nuove possibilità si concretizzano, ciò che era solo in potenza diviene atto, l’immateriale diventa materiale, la realtà si materializza e infinite possibilità scompaiono dall’essere. Così il futuro sembra il luogo filosofico per eccellenza, dimora del divenire, della possibilità, della giungla lussureggiante.
Ma che cos’è, precisamente, il
futuro
? Di cosa parlo, quando dico che la filosofia non si è mai occupata del futuro?
Questa deve essere un’esagerazione: dopotutto la filosofia si è occupata di tutto nei suoi quasi tremila anni di storia!
Innanzitutto, bisogna dire che il futuro non è semplicemente ciò che deve ancora venire ad essere, il non-ancora. Per futuro non bisogna intendere un semplice dislocamento temporale. In questo senso cronologico, il futuro non esiste se non come concetto limite nella mente degli esseri umani e forse di alcuni animali, ma quando si manifesta non può che essere presente. Tutto il tempo esperito, di fatto, è sempre tempo presente. Così, secondo quest’idea temporale di futuro, quest’ultimo non sarebbe altro che un concetto per indicare quel presente non ancora realizzato, il presente che sarà. Ovviamente, per quanto interessante e portatrice di riflessioni filosofiche (prettamente concettuali), quest’idea di futuro non ci interessa. Chiamiamola ‹‹futuro temporale›› o futuro simpliciter. Ad essa, vorrei contrapporre il Futuro con l’iniziale maiuscola, o ‹‹futuro ontologico›› o, meglio ancora ‹‹utopia››. Tenete a mente quest’ultima parola, perché è quella che utilizzerò più spesso per intendere il Futuro. Per l’utopia, o per il Futuro che dir si voglia, l’esser non-ancora è meramente una condizione necessaria, ma è lungi dall’esser sufficiente ad esaurire la natura del fenomeno. L’utopia è una forza, una traccia, che esiste nel presente che rimanda a una dimensione che non è ma che deve esistere temporalmente e potrà esistere ontologicamente.
Per dirla con le parole del critico letterario Frederic Jameson,
Si potrebbe pensare che l'Utopia, che per natura è intrinsecamente rivolta verso il futuro e il non-ancora, esista in realtà solamente nel presente, sotto forma di desiderio o fantasia. Ma pensarla così è fare i conti senza considerare la natura anfibia dell'essere e della sua temporalità: l'Utopia è, filosoficamente, una traccia, ma dall'altro lato del tempo. L'aporia della traccia è quella di appartenere al passato e al presente contemporaneamente, e quindi di costituire una mescolanza di essere e non-essere completamente diversa dalla categoria tradizionale del Divenire a cui siamo abituati, e dunque una nozione scandalosa per la Ragione analitica. Così, l'utopia, che combina il non-essere del futuro con un'esistenza testuale nel presente, non è meno degna delle archeologie che siamo disposti a concedere alla traccia
Il Futuro è dunque una visione, una epifania, che mostra un mondo a venire, un cosmo diverso, manifestando la contingenza e la più sfrenata possibilità; contemporaneamente, il Futuro è una forza attrattiva: nel momento in cui viene a manifestarsi nel presente si presenta come un’entità che viene ex nihilo per portare a termine la sua esistenza. Per questo ho parlato di filosofia ‹‹dal›› futuro e non ‹‹del›› futuro: una vera filosofia utopica non è una semplice riflessione sul concetto di futuro, ma è un impulso che dal futuro si manifesta in noi e che ci attrae con la sua immensa forza creatrice, ci spinge ad agire per realizzare quel futuro.
Attenzione: esistono innumerevoli utopie nel futuro – ma forse ‹‹esistere›› non è il verbo adatto. Un’utopia, più che esistere, manifesta tracce della sua possibilità: questa è l’unica vera esperienza della contingenza che un essere vivente può avere. Nella coscienza anticipatrice, visionaria, epifanica, esiste un reale esperire dell’ordine contingente del cosmo: ogni Futuro, ogni utopia può divenire reale, ma la sua forza attrattiva non basta. C’è anche bisogno di uno sforzo, una messa in pratica: l’essere umano deve agire per realizzare la sua visione. In questo senso una filosofia dal Futuro è anche una archeologia futura: un metodo scientifico di interpretare quei segni, quelle visioni – che se venissero dal passato chiameremmo resti o rovine – e di ricondurle al futuro che preannunciano. Questo tipo di pratica è sempre esistito nella storia umana: astrologia, divinazione, oracoli, sono tutti i modi di indirizzare il presente verso un Futuro a partire da una sua traccia. Una filosofia dal Futuro è in grado di dare una consistenza ontologica e razionalistica a questa pratica.
Ernst Bloch, nella sua monumentale opera ‹‹Il Principio Speranza››, parla della coscienza utopica come di quell’impulso che è nascosto in ogni pulsione umana, che permea l’esistenza cosmica degli esseri: ogni desiderio, volontà, sogno ad occhi aperti, ogni pulsione nasconde al suo interno un anelito utopico nella misura in cui questi sono tutti sforzi relativi ad un futuro migliore. In particolare, Bloch postula l’esistenza di un impulso utopico che governa tutto ciò che nella vita e nella cultura è orientato verso il futuro, e che comprende tutto, dai giochi alle medicine, dai miti all'intrattenimento di massa, dall'iconografia alla tecnologia, dall'architettura all'eros, dal turismo agli scherzi e all'inconscio. In effetti, ne ‹‹Il principio speranza››, Bloch esegue un'indagine senza precedenti delle immagini dei desideri umani e dei loro ‹‹sogni ad occhi aperti››. Il libro inizia da questi ultimi, seguiti da un'esposizione della teoria di Bloch sulla coscienza anticipatrice. Nella terza parte, Bloch applica la sua ermeneutica utopica alle visioni del desiderio che si trovano nella vita ordinaria: dall'aura utopica che circonda un vestito nuovo, le pubblicità, le belle maschere, le riviste illustrate, l'euforia del mercato annuale e del circo, le fiabe, la mitologia e la letteratura di viaggio, i mobili antichi, le rovine e i musei, e l'immaginazione utopica presente nella danza, nell’arte, nel cinema e nel teatro. Lo stimolo che la coscienza utopica mette in moto è la capacità di agire, la prassi, quella che in filosofia viene chiamata agency.
L’agency, questa misteriosa forza che sembra pervadere il cosmo e che è il meraviglioso potere che gli esseri hanno di agire, viene rinchiusa dalla visione contemplativa solo ad alcuni esseri eletti – i soggetti – e comunque confinato al loro intelletto. Il cosmo diventa un’entità comprensibile, e cioè razionalizzabile, ma non modificabile. L’agency però rappresenta il vero paradosso della visione contemplativa: da un lato, ogni essere si vive con un senso intuitivo di libertà e capacità di agire; dall’altro, le scienze dure, senza mai affermarlo esplicitamente, negano comprensibilmente qualsiasi fondamentale libertà d’azione. Tutto è già prestabilito. Il cosmo è deterministico. Una particella non può che seguire le leggi della natura, e così com’è che agisce un animale? Questo suo sentimento di libertà deve essere un’illusione. Aut aut diceva il filosofo danese. O vi è una comparsa miracolosa di agency ad un certo punto dello sviluppo cosmico, comparsa che distrugge l’apparente continuità perfetta della natura; oppure semplicemente ci sbagliamo nel nostro giudizio su noi stessi, abbiamo un pregiudizio, un bias di parte. Ovviamente i miracoli sono tanto inaccettabili quanto impossibili, ne segue che l’essere umano è una creatura imperfetta, che vede intenzioni lì dove ci sono solamente istinti predeterminati. E così via i Dennett e i Dawkins, scienziati rispettabili a negare il sentimento più immediato in favore della pura contemplazione. Il cosmo in una sfera di cristallo. Qualsiasi persona ragionevole non può negare questo determinismo. Dunque, la coscienza diventa il problema più grande, più difficile, per la visione contemplativa del mondo: fenomeno evidente in prima persona, evanescente in terza. Il problema però, semmai, è nei presupposti: il problema è il fondamento.
La filosofia nasce come logos, come tentativo di comprensione razionale, in contrapposizione al mythos, fondamento inoppugnabile. Però, la dicotomia tra mythos e logos è falsa. La verità è il nuovo mythos, il logos è una pura chimera. L’idea infatti che un’osservazione neutra, disinteressata, sia possibile è un presupposto mitico. Qualsiasi osservazione è già un’interazione. Nella fisica quantistica il principio è noto come no observation without interaction
. Il semplice atto di osservare modifica la realtà osservata: questo, ovviamente, non va inteso come un principio idealistico – vedremo in seguito come la dicotomia realismo-idealismo sia essa stessa basata su un pregiudizio contemplativo – piuttosto bisogna comprendere che qualsiasi atto fisico, compresa l’osservazione, ha bisogno di realizzarsi materialmente. In fisica questo vuol dire che non è possibile vedere alcun oggetto senza che la luce – un fotone - lo colpisca, e in sistemi molto semplici questo implica una necessaria perturbazione del sistema. In filosofia significa che nessun concetto è approcciabile dal pensiero senza che pregiudizi, esperienze vissute, conoscenze pregresse lo modifichino: siamo esseri situati. Riconoscere questo aspetto del cosmo significa invalidare completamente l’approccio contemplativo – accedere al passato significa già modificarlo. Abbiamo piuttosto bisogno non di una verità già data, a cui siamo soggetti; piuttosto abbiamo bisogno di un mondo a venire, di esplorare le infinite possibilità che si dipanano dal momento presente, del puro divenire, della pura contingenza. Ernst Bloch, che più di chiunque altri esplorò la dimensione futuribile del pensiero, e dunque sarà per noi una delle guide più importanti in questo viaggio nel tempo, in una delle sue opere più famose scrisse:
Il principio utopico non è riuscito a sfondare né nel mondo arcaico mitico né nel mondo urbano razionalistico [...] la ragione è sempre la stessa: e cioè che sia il tipo di spirito arcaico-mitico, sia quello urbano-razionalistico sono di carattere contemplativo-idealistico, di conseguenza presuppongono un mondo divenuto soltanto in quanto passivo e contemplativo, in quanto mondo concluso. [...] Solo un pensiero rivolto al cambiamento è un pensiero del futuro. [...] Soltanto un sapere concepito come teoria-prassi consapevole si rapporta al divenire e a ciò che in esso è decidibile, mentre invece un sapere contemplativo può riferirsi per definitionem soltanto a ciò che è già divenuto
Come si può ripensare la filosofia alla luce di quanto detto? Userò adesso una parola che ricorrerà spesso all’interno di queste pagine, va quindi compresa per bene: c’è bisogno di un reincantamento, c’è bisogno di reincantare il cosmo. La storia di questo concetto non è molto lunga, se la si comprende all’interno dell’intero progresso filosofico occidentale. Viene introdotto dal sociologo Max Weber nel 1919, nella sua opera “La scienza come professione”, dove scrive:
La crescente intellettualizzazione e razionalizzazione non significa dunque una crescente conoscenza generale delle condizioni di vita alle quali si sottostà. Essa significa qualcosa di diverso: la coscienza o la fede che, se soltanto si volesse, si potrebbe in ogni momento venirne a conoscenza, cioè che non sono in gioco, in linea di principio, delle forze misteriose e imprevedibili, ma che si può invece – in linea di principio – dominare tutte le cose mediante un calcolo razionale. Ma ciò significa il disincantamento del mondo. Non occorre più ricorrere a mezzi magici per dominare gli spiriti o per ingraziarseli, come fa il selvaggio per il quale esistono potenze del genere. A ciò sopperiscono i mezzi tecnici e il calcolo razionale. Soprattutto questo è il significato dell'intellettualizzazione in quanto tale.
In questo passaggio Weber lamenta qualcosa che a prima vista potrebbe sembrare positivo, e che nessuno si sentirebbe di criticare: l’abbandono di categorie magiche e superstiziose per interpretare la realtà a favore di metodi più scientifici e razionali. Sembra una lamentela assurda, no? In filosofia, spesso, si portano avanti ragionamenti che chiameremmo bizzarri, per usare un eufemismo. Come bisogna approcciarli? Le idee non si incontrano mai nel vuoto, ma sempre in uno spazio di confronto già pregno di informazioni, credenze, giudizi e pregiudizi. Un’aula di filosofia però, come può essere una discussione, un testo, una esplorazione, dovrebbe essere un safe space. Uso questo termine in maniera un tantino diversa da quella a cui potreste essere abituati. Nessun antro del pensiero dovrebbe essere impossibile da esplorare: nemmeno quelli che a prima vista potrebbero sembrare pericolosi moralmente o socialmente. Attenzione però: questo non significa legittimare qualsiasi idea riprovevole o sconsiderata: il filosofo e la filosofa, ed uso ora questi termini per indicare chiunque voglia avventurarsi nelle terre del pensiero, non dovrebbero mai abbandonare una certa visione morale globale riguardo la loro attività. Dico solo che le idee, qualsiasi esse siano, vanno incontrate il più neutralmente possibile. La ricerca della verità non è una ricerca se si sa già dove si vuole andare e cosa si vuole rifiutare. In uno spazio sicuro, sotto la guida di un altro pensatore, specialmente se è un gigante come Max Weber, ci si può lasciare andare all’esplorazione di concetti inaspettati, il più delle volte scoprendo meraviglie altrimenti non vedute. Dunque, cosa vuole dirci qui Weber? Il progressivo sviluppo tecnico non ha emancipato l’uomo, piuttosto, ha desacralizzato la vita nel mondo. L’essere umano ha perso miti, rituali, il rapporto con la natura, lo spirito; al suo posto ha guadagnato industrie, città inquinate, sottomissione ad un’economia completamente smaterializzata. Per approfondire il discorso sul disincantamento del mondo potremmo rivolgerci al filosofo italiano Federico Campagna. L’uscita di Technic & Magic di Federico Campagna per Bloomsbury, nel 2018, ha aperto un necessario dibattito sulle criticità della Tecnica e le potenzialità della Magia. Queste due parole indicano, per Campagna, due modi diversi di concettualizzare la Realtà, due strutture che hanno il potere di modellare ciò che è reale - dunque, due modi di fare worldbuilding. Partiamo dalla fondazione: che cosa intende Campagna con il termine “metafisica”? La metafisica è l’assiomatica della realtà: «Il luogo in cui si discute di cosa significhi esistere, di quali cose esistono legittimamente, di come esistono, in che relazione sono l’una con l’altra e con i loro attributi e così via». Il livello metafisico stabilisce le condizioni di possibilità del reale e, di conseguenza, di ogni eventuale cambiamento: senza una (ri)definizione di questi parametri del reale è impossibile concepire nuove configurazioni sociopolitiche. Campagna si interroga su quali assunzioni metafisiche siano necessarie per “giustificare” le istituzioni del nostro tempo, quali credenze ontologiche supportino determinate forme economiche, quali forze del pensiero siano mobilitate nel nostro worldbuilding. Certi assiomi metafisici, interiorizzati come il destino dei nostri tempi, operano come un processo di creazione di uno specifico universo, che Campagna chiama “cosmogonia”. Il prodotto di questa cosmo-genesi non è la realtà in sé, quanto uno specifico ordinamento, risultato di un atto di ordine sopra il caos. La metafisica Tecnica viene quindi associata ad una visione del mondo come un insieme di risorse da sfruttare, di obiettivi da raggiungere, di misure da operare. Prima di essere, il mondo deve funzionare. La Tecnica ci svela dunque il mondo come un insieme di cose riducibili al loro valore strumentale: valore che verrà deciso dal suo ruolo all’interno di uno specifico apparato produttivo, che a sua volta è ridotto alle sue capacità di espansione, alla sua possibilità di crescere all’infinito; le cose esistono perché servono. Possono essere dunque sfruttate, utilizzate, ma per che cosa? Campagna intuisce che per fondare una tale ontologia è necessario uno specifico concetto di causalità: le cose servono, funzionano perché producono qualcos’altro. A può produrre B, dunque A ha dignità di esistenza. La causalità è ridotta ad una funzione produttiva più che creativa, al riprodursi dell’esistente più che all’apparire di qualcosa di nuovo. Come Weber, anche Campagna, sulla scia di Husserl, di Silvia Federici e di molti altri, teorizza una certa perdita di senso del mondo della tecnica. A questa distopia, viene contrapposto il sistema della magia. Il filosofo italiano sceglie e sviluppa il senso “terapeutico” della parola “magia”, con un riferimento al lavoro del grande antropologo e etnologo italiano Ernesto De Martino: ben lontano dai significati che circondano la parola nel nostro immaginario, per De Martino — Campagna cita l’opera “Il mondo magico” — storicamente il ruolo di sciamani e stregoni nelle società arcaiche è stato proprio quello di superare la perdita di orizzonti di senso che ha attraversato la storia di molte comunità. Per esempio, quando la modernità ha raggiunto certe aree rurali dell’Italia, è sembrato che l’armonia delle cose fosse perduta per sempre, che le relazioni tra esseri umani e natura si fossero disgregate e che nulla avesse più senso. Questo stato di krisis è stato affrontato non limitandosi ai problemi dell’individuo ma individuando nuovi frame, nuove cornici che dessero un senso a quanto succedeva. Attraverso un sistema di realtà come quello tecnico, sono molte le ferite che il nostro mondo sta accumulando, dalle quali possono prendere vita orrori vecchi e nuovi. Per non farsi lacerare, occorre poter agire nel qui e ora, senza aspettare passivamente la rivoluzione. La magia di Campagna è una magia radicalmente anarchica e autonoma, un’affermazione della potenza della vita al di là delle sovrastrutture. La forza di questo aspetto del libro è la definizione di una vera cura del sé e del mondo che rovescia il frame in cui siamo gettati a vivere.
Possiamo fare a meno di un sistema metafisico che non comprenda la tecnica? Sembra difficile dal momento che un aspetto della natura della specie umana ha conseguito il suo sviluppo a partire dalla rivoluzione del pollice opponibile e tutto quel che ne è conseguito con l’età della pietra, la costruzione di utensili, la scrittura. Al contrario bisognerà asservire la tecnica e la produzione tecnologica alla magia, reintegrare all’interno dell’impostazione metafisica dopo aver attraversato un processo di reincantamento, una trasformazione che ri-orienta il telos dalla catastrofe del regno tecnico al fronte dell’utopia. Come scrive un altro filosofo italiano, Federico Vercellone: ‹‹Il reincantamento costituisce una sorta di strategia dell’immagine che ci consente di edificare nuovamente luoghi esteticamente connotati nell’enorme perimetro, per dirla con Marc Augé, dei non–luoghi››. Questo significa anche creare luoghi “magici”, “alchemicamente reincantati” di incontro e di ricreazione delle culture. Si tratterebbe di luoghi che costituiscono un nuovo coagulo di appartenenze che viene “inventato” attraverso il medium dell’immagine, vero e proprio modello di innovazione creativa e tecnologica. Reincantamento significa dunque restituire e ripristinare una cultura delle appartenenze nell’universo del disincanto del mondo. E farlo significa anche tuttavia rendersi edotti che queste appartenenze sono costantemente mediate da un intervento tecnologico che ha un valore sostanziale per il loro realizzarsi. Il medium tecnologico diviene assolutamente centrale per ristabilire quelle appartenenze che la tecnologia stessa, in un’altra versione, aveva esautorato con un’opera di sradicamento che aveva costituito il suo sigillo di riconoscimento – come, ad esempio, fa l’antropologo Alfred Gell in The Technology of Enchantment and the Enchantment of Technology – che considera l’arte come una via di fuga dal disincanto se intesa come reincantamento della tecnologia. Inoltre, come suggerisce indirettamente il filosofo cinese Yuk Hui, il modo in cui Campagna pone il binomio tecnica/magia è già sbagliato: non si può contrapporre la tecnica alla magia, perché ogni cosmogonia tecnica è già una cosmogonia magica. Quello che va fatto è trovare una nuova cosmotecnica, ossia va reincantata la tecnica, va trovato un uso terapeutico della tecnica. La soluzione non può essere riassiomatizzare magicamente il reale, cosa che puzza di idealismo e che non coglie la vera natura della tecnica. Questo risponde anche al problema della magia in Campagna: che cos’è? non è chiarissimo: la tecnologia non può essere rifiutata, deve essere usata in maniera emancipatoria (come, ad esempio, suggeriscono il femminismo glitch, lo xenofemminismo, il filosofo Paul Preciado, oppure l’utilizzo di tecnologie come CRISPR).
E per usare in maniera emancipatoria la tecnologia è necessaria una sua ri-programmazione al di là degli stilemi metafisici della Tecnica. Ancora, il mondo della magia, in Campagna, è un mondo autonomo, in senso politico. Da questo però scaturisce che il rapporto magico col mondo è un rapporto personalistico, individuale, che può essere collettivo ma che non lo è necessariamente. La metafisica magica, in conclusione, si configura come un modo di vivere bene con il mondo nonostante la catastrofe. Ciò che io propongo, invece, è un processo reale di reincanto del mondo che non può non essere collettivo. Il reincantamento è una prassi e come tale è dolorosa. Infine, bisogna sfuggire al richiamo idealista che fa da sfondo a tutto questo discorso sulla tecnica e sulla magia. Quello che ci serve è un nuovo modo di intendere l’engagement delle agentività con il mondo. Un engagement che deve essere realista. Un engagement della partecipazione.
C’è quindi bisogno di una filosofia nuova
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E, una nuova filosofia, è una filosofia speculativa. Se finora il pensiero contemplativo è stato un pensiero critico, un pensiero speculativo è un pensiero creatore, forza germogliante ed esploratrice. Cos’è una filosofia speculativa?
‹‹Speculare››, nel suo senso etimologico, significa ‹‹guardarsi intorno››: la specola è in prima istanza il luogo dal quale l’osservazione è privilegiata, quel luogo da cui si riesce a vedere tutto. Specola è anche un antico nome per indicare gli osservatori astronomici: quale miglior esempio dello sguardo di chi esplora, cerca, brama; quello sguardo alla ricerca di altri pianeti, di altre forme di vita, di altri sguardi? Le differenze tra la contemplazione e la speculazione è che lo sguardo che specula non è solo uno sguardo: è un’azione, è un movimento, è una brama. Cercare vuol dire attivarsi, operarsi. E l’umanità scruta il cosmo per capire il proprio posto nell’universo, perché quod est superius est sicut quod inferius. D’altra parte, è dall’osservazione del cosmo che nasce la filosofia – la prima domanda sull’arché, sulla provenienza di tutto ciò che esiste. Allo stesso modo, lo speculum è sia la lente del telescopio che esplora nuovi orizzonti – come affermava Konstantin Tsiolkovsky, altra guida in questo nostro viaggio, «la Terra è la culla della mente, ma non si può vivere nella culla per sempre» –, ma anche lo specchio tramite cui guardiamo noi stessi. Non a caso quel tipo di specchio che restituisce allo sguardo la figura intera è chiamato psiche: per guardare dentro di noi, dobbiamo volgere lo sguardo all’esterno. Lo specchio è dunque uno dei simboli preferiti dalla filosofia: questa è infatti riflessione del mondo, in entrambi i sensi del genitivo. Abbandonando lo sguardo contemplativo, una filosofia speculativa è una filosofia dal futuro: una filosofia, cioè, che rende possibile il radicalmente nuovo tramite l’azione, che non cerca la verità nel passato ma che la rende possibile nel futuro. Una filosofia che, dal futuro, ci raggiunge per spingerci avanti attraverso nuovi meravigliosi mondi.
L’adagio vuole che sia più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo; allora la pratica di immaginare il futuro è essenzialmente rivoluzionaria: dobbiamo immaginare di più, immaginare meglio. I filosofi empiristi hanno spesso affermato che non c'è nulla nella mente che non sia stato prima nei sensi. Se è vero, questo principio significa la fine, non solo dell'Utopia come forza, ma più in generale della fantascienza e della speculazione. Quando Omero diede vita all'idea della Chimera, non fece altro che unire in un solo animale parti che appartenevano ad animali diversi: la testa di un leone, il corpo di una capra e la coda di un serpente. Affermare così che anche le nostre immagini mentali più selvagge, le visioni più recondite di futuro sono solo collage di esperienze, costruzioni fatte di pezzi del qui e ora, significa, a livello sociale, che la nostra immaginazione è ostaggio dei nostri modi di produzione. Da un lato questo è sicuramente vero: siamo esseri situati e non dobbiamo pensare nemmeno alla nostra psicologia come una forza immateriale. Dunque, questa visione suggerisce che nel migliore dei casi l'utopia può servire allo scopo negativo di renderci più consapevoli della nostra prigionia ideologica, e che quindi le migliori utopie sono quelle che falliscono in modo completo, come ha a volte sostenuto Frederic Jameson. D’altro lato, però, anche nella mera combinatoria vi è una potente brama emancipatrice: il nuovo, il glitch – quello che alcuni filosofi hanno chiamato l’Evento – è una realtà possibile e che ha una forza concreta, bisogna solamente saperla incanalare. Come ricorda Michael Camille, un famoso storico del medioevo, non dobbiamo affatto pensare all'immaginazione solo come ad una facoltà cognitiva derivante da quella zona privilegiata nella parte anteriore del cervello che è peculiare degli esseri umani, più vicina agli occhi e quindi strettamente legata alla visione; piuttosto, dobbiamo pensare all’immaginazione anche come una ad forza che può effettivamente creare forme. Lo studioso polacco del XIII secolo Witelo sosteneva che l'immaginazione, essendo un intermediario tra la mente e la materia, permetteva ai demoni di accoppiarsi con gli esseri umani, poiché ciò che veniva percepito nella fantasia era, in alcuni casi, reale. Per questa ragione, le donne incinte erano esortate a non guardare le scimmie o anche a pensare a cose mostruose, per evitare che la loro immaginazione impregnasse la loro prole con forme orribili. Così l’immaginazione diventa una forza creatrice, simile all’evoluzione creatrice di Bergson, o – più accuratamente – alla selezione naturale darwiniana e alle sue infinite forme:
È interessante contemplare una rigogliosa ripa fluviale, coperta di molte piante appartenenti a molti tipi, con gli uccelli che cantano tra i cespugli, i diversi insetti che svolazzano intorno e con i vermi che strisciano nel terreno umido, e riflettere che queste forme dalla struttura così complessa, tanto differenti le une dalle altre e dipendenti le une dalle altre in modo talmente complicato, sono state tutte prodotte dalle leggi che operano attorno a noi. [...] Dunque dalla guerra della natura, dalla carestia e dalla morte, nasce la cosa più alta che si possa immaginare: la produzione degli animali più elevati. Vi è qualcosa di grandioso in questa concezione della vita, con le sue molte capacità, che inizialmente fu data a poche forme o ad una sola e che, mentre il pianeta seguita a girare secondo la legge immutabile della gravità, si è evoluta e si evolve, partendo da inizi così semplici, fino a creare infinite forme estremamente belle e meravigliose.
Il classico paradosso dei viaggi nel tempo, nell’immaginario comune, vuole che alterare un minimo dettaglio nel passato può distruggere il presente. Ma quanti di noi credono che alterare un minimo dettaglio nel presente possa cambiare radicalmente il futuro? La rivelazione speculativa, in questo senso, consiste nel capire che non c’è un modo in cui le cose devono andare, esistono solo i vari percorsi che gli eventi possono seguire, sta a noi agire per determinare il flusso, o ne saremo determinati. Al mythos e al logos voglio proporre un’altra strada: quella della praxis. Ripensare la filosofia sulla praxis vuol dire anche abbandonare l’idea contemplativa della verità, a favore di una idea speculativa di verità.
Su cosa fondare dunque nuovamente il pensiero? La mia proposta è la
speranza
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La lente dello sguardo che brama, che cerca nuovi pianeti è la lente della speranza: chi cerca, infatti, spera di trovare. Ecco la differenza tra speculazione e contemplazione. Cercare (speculare) implica un obiettivo: e l’atto sottintende una volontà di realizzarlo. Per questo la speranza è un sentimento intrinsecamente legato all’azione. Curiosamente, la speranza, nota ancora Bloch, non figura nella storia delle scienze, né come essenza psichica né come essenza cosmica. Eppure, la speranza o, se così si preferisce chiamarla, la brama, il sogno, la tensione per il futuro, l’Utopia, è la maggiore forza che ha spinto lo sviluppo dell’essere umano. In questo senso, l’unica filosofia realmente speculativa che sia mai esistita è quella di Marx: è il marxismo, infatti, l’unico sistema di pensiero che permette la creazione del radicalmente nuovo, sottolineando l’importanza della prassi, dell’azione. La vera portata metafisica dell’agency come forza creatrice è stata intuita solamente da Marx.
Quello che una filosofia speculativa – nel senso di una filosofia della praxis – dovrebbe fare è di concepire il nuovo.
Ho deciso di chiamare questa cornice teorica ottimismo speculativo. Negli ultimi dieci anni il pessimismo speculativo è stata una delle filosofie più popolari di sempre. Non riesco a comprenderne le ragioni. La filosofa bell hooks, una delle più importanti teoriche del femminismo mai esistite, ha scritto:
Ho iniziato a studiare filosofia perché stavo soffrendo - il dolore dentro di me era così intenso che non potevo continuare a vivere. Sono arrivata alla filosofia disperata, perché volevo comprendere - afferrare ciò che stava accadendo intorno e dentro di me. Soprattutto, volevo far sparire il dolore. Ho visto nella filosofia un luogo di guarigione.
Trovo che questa immagine della riflessione sia sinceramente bella, in un senso primordiale di bellezza; emancipatrice. Il pessimismo speculativo non promette nessuna via di fuga dalla sofferenza, al massimo la giustifica. È, in questo senso, una filosofia facile, comoda. Ma una filosofia che non mette in discussione niente, e in particolar modo che non ha il coraggio di mettere in discussione la sofferenza del filosofo, non è una filosofia coraggiosa. C’è bisogno di uscire dai propri limiti, di interfacciarsi col mondo, di rischiare di perdersi. Eppure, aggiunge sempre hooks, ‹‹la filosofia non è intrinsecamente curativa, liberatoria né rivoluzionaria. Bensì, arriva a svolgere queste funzioni solo quando le chiediamo di farlo e dirigiamo la nostra riflessione verso questi fini››. Essere ottimisti, al giorno d’oggi, significa ignorare la realtà, significa non rendersi conto del mondo circostante. Il sistema metafisico vigente non permette di essere ottimisti. Dunque, c’è bisogno di una radicale cambiamento di metafisica. Una filosofia speculativa, quindi, nel senso in cui ho definito io questa parola, non può che essere una filosofia ottimista. Se il futuro è il frutto delle nostre azioni, meglio sperare il meglio, no? Così, l’ottimista non è il gioioso, piuttosto è chi agisce con speranza, un tipo di speranza pratica che si risolve e giustifica l’azione. È questo l’esercizio speculativo che dobbiamo scegliere di praticare tutti insieme. Una famosa citazione di Mark Fisher afferma che una politica emancipatrice deve sempre distruggere l’apparenza di un ordine naturale, deve rivelare che ciò che viene presentato come necessario e inevitabile è una mera contingenza, così come deve far sembrare raggiungibile ciò che prima era ritenuto impossibile. La potenza di immaginare un futuro vero, uno scenario radicalmente altro è proprio questa. Quando parlo ad un amico di questo mio progetto, di voler scrivere una metafisica dell’ottimismo, mi guarda incredulo, tra il divertito e il preoccupato. Mi considera un ingenuo. Poi mi dice ‹‹Non c’è niente di cui essere ottimisti››.
Non sono d’accordo.