Ciao, ben trovati al diciannovesimo episodio di Filosofia dal Futuro!
Questa settimana vi proponiamo un dialogo tra Alessandro e Marco sui temi dell'alchimia, del reincantamento e di cosa possa essere una farmacologia positiva. Si tratta di una conversazione che tocca il cuore della nostra speculazione filosofica e incrocia il lavoro di autor* come Carolyn Merchant, Silvia Federici, Ivan Illich e Yuk Hui.
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Un dialogo sul Reincantamento
di Alessandro Y. Longo e Marco Mattei
Alessandro Longo: Il disincanto, la razionalizzazione del mondo… Silvia Federici e Carolyn Merchant affermano che c’è stata una certa violenza contro alcuni soggetti che in società pre-contemporanee occupavano posizioni che potremmo definire “incantate” e che ora sono state spazzate via. Penso alle streghe, ma anche gli sciamani - per recuperare Michael Taussig - o alle pratiche indigene… un discorso serio sul reincantamento non può ignorare questi fenomeni, anzi: devono essere studiati anche solo come modelli regolativi. In questo senso il reincantamento è anche un’archeologia dei saperi, o delle pratiche.
Marco Mattei: Vorrei farti una provocazione, però. Lo scrittore di fantascienza Ted Chiang ha mosso una potente critica a queste pratiche che potremmo definire - con un termine ombrello - esoteriche. La sua critica è specificatamente rivolta all’alchimia, e quindi lo pongo in un dibattito immaginario con il filosofo Luciano Parinetto. Quello che mette in discussione Chiang è l’effettiva utilità di questi soggetti nel mondo contemporaneo. Cui prodest? Recuperare le streghe oggi cosa significherebbe, di fatto? Recuperare un sapere pre-scientifico? In un certo senso, la scienza contemporanea è in continuità con questi saperi antichi. Certo, sicuramente c’è stata una forte rottura per quanto riguarda i soggetti di questi saperi - se una volta la conoscenza erboristica e proto-medica era appannaggio delle donne, ad esempio, successivamente la medicina le ha escluse sia come soggetti che come oggetti per lungo tempo. Però la medicina non è una pratica qualitativamente diversa rispetto all’erboristeria, oserei dire; è semplicemente una pratica quantitativamente diversa: abbiamo più dati, più informazioni, e quindi più conoscenza. Inoltre, aggiunge Chiang, dobbiamo pensare che queste pratiche - e qui fa riferimento specialmente all’alchimia - erano pratiche fondamentalmente esoteriche, e quindi iniziatiche, elitiste, gerarchiche, anti-democratiche… un po’ lo spirito opposto di quello che sarebbe il reincantamento. Se invece lo scopo di questa archeologia dei saperi è solo quello di recuperare un certo atteggiamento, - diciamo è un’archeologia formale piuttosto che sostanziale o contenutistica - non è qualcosa di estremamente marginale?
AL: Devo essere sincero, non credo che dovremmo recuperare oggi i contenuti di quei saperi. In questo senso concordo che il reincantamento potrebbe essere solo una archeologia formale, come hai detto tu. D’altra parte, non si può nemmeno negare che quei saperi avevano una distribuzione completamente diversa nella società del tempo. Tralasciamo l’alchimia e concentriamoci sulla stregoneria. Sia Federici che Merchant sono chiarissime su questo punto: l’ostetricia era un sapere essenzialmente femminile, l’erboristeria era un sapere essenzialmente femminile. La categoria di stregoneria, sulla cui base poi moltissime donne sono state condannate, è stata costruita appositamente per includere quei saperi tipicamente femminili. Federici ha parlato di mental enclosures a questo proposito: il sapere è stato recintato con una mossa dall’alto verso il basso, ed è stato distribuito solo a soggetti specifici. C’è una enorme questione di epistemologia sociale che si nasconde qui dietro. Tu prima hai glissato velocemente sul fatto che le donne sono state escluse come soggetti e come oggetti dalla medicina contemporanea, ma questo non è un fatto marginale come lo fai sembrare, è una questione centrale. Non sto dicendo che dobbiamo recuperare pratiche magiche nei loro contenuti, però dovremmo essere sicuramente coscienti di come la strutturazione sociale della conoscenza sia stata condizionata e imposta secondo uno schema di interessi preciso da parte del potere. Il sapere delle levatrici, ad esempio, era un sapere popolare, appartenente a tutte le donne. Non c’era la figura dell’esperto. La conoscenza della levatrice era parte della vita della donna. Io credo che la figura dell’esperto sia una costruzione interamente sociale – l’esperto non ha un accesso privilegiato alla conoscenza, perché essere un esperto non è una questione ontologica, è una questione politica, al massimo di ontologia sociale. Per questo ritengo che l’esperto è una figura del disincanto, in quanto il suo sapere è staccato dalla sua vita; mentre invece una distribuzione della conoscenza olistica è più integrata nella vita della società come organismo. Che poi anche qui, ci sarebbero ulteriori cose da dire. Merchant e Federici, tra le altre cose, sostengono la tesi che Cartesio, Hobbes e via discorrendo, hanno applicato un modello meccanicistico al mondo, e questo modello è stato affine alla nascita del capitalismo. Questo modello, dice in “Recursivity and Contingency” il filosofo cinese Yuk Hui, è stato poi superato grazie alla cibernetica, che recupera una visione organicista del mondo. Ma la mia domanda è, in linea anche con il lavoro di Matteo Pasquinelli, quanto questo ritorno all’organicismo è veramente di sinistra? Quanto è auspicabile?
MM: I modelli meccanicistici, da Cartesio in poi, sono stati utilizzati tantissimo, specialmente nella psicologia. Non soltanto nell’intelligenza artificiale - penso al machine learning che di intelligente non ha niente, ma questo è un altro discorso - ma anche a modelli di spiegazione psicologica, il modo in cui la conoscenza psicologica è stata organizzata. I modelli meccanicistici prevedono un’analogia della psiche con una macchina - che in tempi moderni è il computer, ma anticamente era la calcolatrice - e quindi perdono l’ecceità, il principium individuationis, l’unicità che alla fine contraddistingue le menti individuali. E poi soprattutto questo modello di organizzazione del sapere psicologico riduce i fenomeni mentali - dalla psicologia clinica alla psicologia cognitiva - a catene di causa-effetto estremamente semplici e generalizzabili… non c’è più spazio per la vita vissuta dell’individuo. In questo senso, capisco perfettamente come il meccanicismo abbia aperto la strada al disincanto. A quanto ne so, la filosofia della natura contemporanea sta recuperando molto l’organicismo, anche in psicologia, ma la discussione - almeno al livello accademico - è ancora troppo marginale per avere degli effetti concreti. Ma tornando al discorso principale: un meccanismo, ontologicamente, altro non è che una idealizzazione, un modello astratto. Da un lato, questo è un presupposto fondamentale per la possibilità della scienza: affinché sia possibile uno studio puramente descrittivo, l’oggetto di tale studio deve essere al di fuori di ogni catena di causa-effetto (e dunque astratto). Non è possibile descrivere un fenomeno concreto, perché interagire con qualcosa di reale significa modificarlo, influenzarlo. L’agency è irriducibile. Dunque, un sapere puramente descrittivo come la scienza è un sapere puramente modellistico, cioè di oggetti ab-stracti. Della questione dell’organicismo ne parlano molto anche i cosmisti russi, che forse nomino un po’ troppo. Fedorov, il padre del comsismo russo, afferma che ogni -logia dovrebbe trasformarsi in -urgia, ossia ogni forma di conoscenza del mondo dovrebbe smettere di configurarsi come studio disinteressato e riconfigurarsi come pratica di engagement col mondo. Questo è un paradigma fortemente organicista, significa che conoscere implica il fare. Per fare un esempio concreto: la sociologia diventa un campo di studi contradditorio. Non si può studiare la società in astratto. Ma studiare la società in concreto significa modificarla, e quindi non conoscerla mai davvero, in quanto in continuo movimento. E questo vale per ogni scienza. Così, l’-urgia di Fedorov è un modo innanzitutto per concettualizzare la natura processuale del mondo; e in secondo luogo è un paradigma per riportare le pratiche epistemiche nel mondo. Ancora un altro esempio: l’ecologia diventa ecourgia
, e quindi ingloba l’azione politica. In un certo senso significa anche riconoscere che il piano di discussione sui valori, sulla politica, non è separato dal piano scientifico… la conoscenza è sempre di natura olistica.
AL: Quello che io dico è che da un lato questo processo credo sia inevitabile. Basta pensare alla storia dell’ecologia. Oggi l’ecologia - che è una scienza - è una pratica altamente controversa, proprio perché mette in discussione scelte politiche. Non siamo ancora arrivati al punto in cui scienza e politica sono completamente fusi nell’ecologia, ma sicuramente l’organicismo tenderà ad aumentare. In un certo senso, l’ecologia è stata la forza che ha incrinato la rigorosa separazione tra fatti e valori nel mondo contemporaneo. Dall’altro lato, questo è un discorso estremamente populista, temo. Innanzitutto, perché rifiutare il paradigma razionalista - e quindi meccanicista, descrittivista come dici tu - vuol dire riconoscere il fallimento della razionalità… quindi vuol dire che non esistono esperti, non esistono istituzioni, non esistono pretese epistemiche più fondate di altre. Checché ne dica Ival Ilich, alcune istituzioni della società di massa sono state effettivamente buone: ospedali, scuole, eccetera. Come riportare queste pratiche nella società contemporanea senza finire nell’anarchia epistemica totale? Forse capisco l’iniziaticità delle pratiche alchemiche, perché questo è un discorso innanzitutto valoriale. Per praticare alcune pratiche, bisogna innanzitutto avere una formazione mi verrebbe da dire “etica”. Forse bisognerebbe ripartire proprio da Ival Ilich… non so, non ho risposte in merito.
MM: Ma infatti credo anch’io che una parte sostanziale del reincantamento sia recuperare un impegno etico ed estetico che oggi non c’è nelle pratiche. Questo è quello che intendo quando parlo dell’engagement col mondo. Oggi la medicina, ad esempio, ha un impegno etico minimo: non si parla di politicizzare il cancro, non si parla di fine vita, non si parla di aborto. Dovremmo metterci in testa che non si può discutere di questi temi come se fossero solo etici o solo scientifici, chi si occupa di queste pratiche deve farlo da entrambe le prospettive.
AL: Sono d’accordo. Il punto è come si fa a configurare questo tipo di discorso oggi, in un mondo in cui comunque queste pratiche sono state sempre e solo utilizzate a scopi distruttivi. Bisogna ammetterlo: qanon è la cosa più vicina al reincantamento che ci sia mai stata. La gran parte delle persone che hanno messo in pratica questi discorsi sono finite in distorsioni reazionarie deliranti. Quindi la domanda è come utilizzare il reincantamento come ideale regolativo? Io penso che la pandemia ha reso incredibilmente difficile la critica da sinistra alla scienza, per esempio. Parlare di disseminazione di conoscenza dopo questo fenomeno sembra possa finire a significare solamente comunità ristrette, richiami al locale in maniera proto-fascista, una visione della natura eco-fascista… è una difficoltà che riconosco come quasi insormontabile e quindi è innanzitutto un momento di autocritica alle riflessioni che ho portato avanti finora. Mi rendo conto che a volte c’è un’area del pensiero che separandosi dal suo oggetto di studio ha generato scoperte realmente emancipatorie e anche framework di razionalità emancipatoria. Quindi quale pratica è effettivamente desiderabile? Intuitivamente, mi verrebbe da dire che una strada percorribile è quella della farmacologia. L’essere farmacisti di se stessi, per così dire. Forse, aggiornando tecnologicamente le pratiche alchemiche o magiche - penso al biohacking, al neurohacking e così via - allora può esserci un futuro. Che poi sì, queste sono -urgie… possiamo dire che il biohacking è l’alchimia del futuro. Prendere dal passato l’organicismo, la teoria delle relazioni, la metafisica, ed aggiornarle con i contenuti contemporanei. Al tempo stesso, il reincantamento si muove su un filo molto sottile, perché la farmacologia si apre anche ad orrori ben peggiori.
MM: Questo credo sia il nostro punto di maggiore divergenza. Tu sei molto autonomo, in senso politico. Io, invece, non credo nell’approccio liberale. Ironicamente, ci siamo scambiati di ruolo, ora io affermo il modello alchemico e tu lo neghi: l’approccio deve essere verticale, dall’alto verso il basso. Lo scopo delle pratiche iniziatiche è avere proprio questa guida “etica” al vertice della gerarchia. Dobbiamo accettare che alcuni saperi sono pericolosi, o quantomeno potenti, e quindi per averne accesso c’è bisogno innanzitutto di aver maturato una certa disciplina etica. Non tanto l’”esperto” ma il “saggio” è la figura che cerco. Riconosco che è un approccio forse gnostico, forse “monastico”, ma non vedo alternative. Dare piena libertà ai soggetti, renderli pienamente agenti, senza una disciplina, un’organizzazione, è una condanna.
AL: Non sono ovviamente d’accordo, innanzitutto perché così facendo verrebbe meno uno dei presupposti da cui siamo partiti e che ritengo fondamentale per il reincantamento: cioè la distribuzione libera della conoscenza. E poi questa forma organizzativa della conoscenza è fondamentalmente scientology, stiamo parlando di una setta.
MM: Sapevo benissimo che qui ci saremmo divisi. Non vedo però altri modelli: senza organizzazione non si va da nessuna parte. Basta vedere la fine che hanno fatto praticamente tutti i movimenti nati dal basso: prima o poi vengono annientati da soggetti più organizzati. Invece, i movimenti che sono arrivati al potere, sono quelli costruiti dall’alto, pensa alla Mont Pelerin Society, o agli altri Think Tank pro-liberismo.
AL: Ok, certo, sicuramente c’è bisogno di essere organizzati… ma quello che voglio dire è che lo scopo del reincantamento è uno scopo autonomo, nel senso del darsi la legge da sè. L’autonomia della conoscenza, l’autonomia della tecnologia. Va de sé che questo richieda un’organizzazione nel senso che non si può lasciare alle idiosincrasie del singolo, ma non un’organizzazione nel senso di ordine imposto come la intendi tu. Le comunità possono darsi legge da sè e gestirsi autonomamente; qualsiasi discorso top-down flirta eccessivamente con una forma di pensiero reazionaria, penso. Queste comunità, queste forme di vita autonome poi, possono fungere da esempio virtuoso, per gli altri, e tramite questa forma di esemplarità essere normative – ideali regolativi concreti – ma non c’è nessuna forma di strutturazione del potere dall’alto verso il basso.
MM: Filosoficamente potrei anche essere d’accordo, ovviamente. Ma non vedo questo modello applicabile viste le nostre condizioni di partenza. So di essere un riformista, ma bisogna che il reincantamento faccia anche i conti con il realismo politico. Ad oggi, il giorno della rivoluzione è ancora lontano. L’unico modo per avvicinarci al momento rivoluzionario è gradualmente, istituzionalmente. Muoversi nelle istituzioni esistenti sfruttando le libertà del diritto. Quello che voglio dire non è condannare la rivoluzione. Credo che la rivoluzione arriverà e credo che sia necessaria. Il punto è cosa fare ora, mentre che aspettiamo la rivoluzione. Io penso che l’unica via percorribile sia quella del compromesso, dello sporcarsi col fango. Anche Lenin metteva in guardia dalla rivoluzione prematura.
AL: Attenzione a non fraintendermi: innanzitutto, quando parlo di autonomia, parlo di autonomia collettiva. Non sono stirneriano. Detto questo, il tuo discorso forse è troppo arrendevole. Io credo ci siano soluzioni alternative nel mentre. Soluzioni “diagonali”, né verticali né orizzontali. Ad esempio, internet è un luogo molto fertile per la costruzione di comunità in questo senso: pensa alla blockchain. Ma pensa anche a wikipedia: si tratta di un vero e proprio commons epistemico. Lì ti sembra ci sia qualche forma di gerarchia verticale? L’organizzazione è stata interamente autonoma – una comunità che si autoregola. Sicurmante anche wikipedia ha i suoi difetti, magari ci sarà un top-editor che è anti-semita. Ma il pensare una cosa come “pura” dall’inizio è il peccato che commettono le identity politics. Questi scontri credo siano salutari in qualsiasi tipo di comunità, e soprattutto credo siano in larga misura gestibili autonomamente.
MM: Quest’ultimo punto è molto interessante. Recentemente ho molto riflettuto sul “conflitto” e sono giunto a questa conclusione: il conflitto è utilissimo. Nelle comunità specialmente, il conflitto gioca un ruolo fondamentale ed oserei dire di vitale importanza. Una comunità senza conflitto è una comunità fascista. Polemos è padre di tutte le cose, diceva Eraclito. Se vogliamo farne un discorso metafisico, il conflitto convive con il mutamento, se l’essere è un processo, è inevitabile che ci sia conflitto ovunque. Il desiderio, ad esempio, è conflittuale al livello più fondamentale. Per questo sono anche fortemente critico rispetto a tutte quelle filosofie che vogliono eliminare qualsiasi forma di scontro, che rifuggono a qualsiasi forma di potere, dal sesso alla vita politica. Eliminare il conflitto, e quindi eliminare il desiderio, significa narcotizzare la vita. Tangenzialmente, penso che proprio il problema del pessimismo filosofico, e quindi di una particolare forma di disincanto del mondo, nasca proprio da una incapacità di gestire il conflitto che il desiderio genera col mondo: si tende a vivere questo scontro come qualcosa che non dovrebbe esserci e quindi si cerca di eliminare la causa del conflitto, un totale disengagement. Allo stesso modo quindi sono critico delle figure ascetiche che alcune filosofie orientali propongono, l’eliminazione del desiderio e così via… ma questo è un altro discorso. Tornando sul punto, se il top-editor di wikipedia è anti-semita – dirò una cosa controversa – non credo sia in sè una cosa negativa. Sia ben chiaro: non sostengo nessuna forma di nazismo o di antisemitismo. Quello che dico è che nel sostenere posizioni aberranti, l’editor mette la comunità nella posizione di creare conflitti produttivi: che generano nuovi valori, nuove identità, nuove forme di vita. La comunità deve essere in grado di gestire un conflitto di tale entità, altrimenti ne soccomberebbe. Il principio è lo stesso dei moderni politici fascisti che cercano di mettere a tacere qualsiasi dibattito sul fascismo per concentrarsi sulla storia del comunismo: il punto è che dove c’è conflitto c’è una messa in discussione dei valori. Non avere conflitto sul fascismo significa essere preda del fascismo. Una società che non è in grado di scontrarsi con un’idea, è una società vittima di quell’idea.
AL: Anch’io lo penso. Ma infatti, per tornare al discorso iniziale, nel rifiuto del conflitto si cela un organicismo cattivo. Questa è la mia critica a Matteo Pasquinelli. L’eco-fascismo si sposa perfettamente con la visione di una natura in perfetta armonia. Questo perché il fascismo è la ricomposizione dei conflitti sociali fatti. Spostando il conflitto all’esterno della comunità, l’interno diventa un organismo. Questo organicismo perverso è un manicheismo: c’è questa tendenza a pensare che la natura sia buona in sè e l’azione umana l’abbia in seguito corrotta. L’idea è quindi che ci sia un soggetto puro, buono in sè, che è l’unico che abbia la legittima autorità per ricomporre i conflitti. Così Trump, per qanon eccetera. Querdenken, il qanon tedesco, ha la sua base nella foresta nera – che ricorda una certa radura heideggeriana. L’idea che l’essere abbia una sua purezza primigenia, genera un discorso normativo su chi sia il corruttore, e quindi il colpevole. Il buono in sè genera il malvagio in sè. E lo scontro tra buoni e cattivi, in questo senso, non è un conflitto, è una guerra santa; non può nascere niente se non morte. Distinguere il conflitto dalla guerra è importante, il soggetto è in conflitto col mondo ma non è in guerra col mondo. La prima è un’idea fertile, la seconda è una forma di disengagement, è essere invasati dal dio e consegnargli la propria agency. Nel conflitto il potere è distribuito equamente, nella guerra c’è l’annientamento dell’altra soggettività. Applichiamo questa lente all’economia: il liberismo, la trickle-down economy, l’autoregolazione del mercato… è un modo di ricomposizione dell’organismo che esclude il conflitto. E’ un meccanismo cibernetico, è un organicismo cattivo. Questo perché il conflitto è automaticamente re-indirizzato verso il soggetto stesso: se c’è un malfunzionamento, l’errore deve essere dentro di me, perché l’organismo deve funzionare così. Gli organismi hanno una teleologia intrseca che i meccanismi non hanno.
MM: L’estrema auto-regolazione del mercato è la dittatura del proletariato.