CIAO! Vi diamo il benvenuto al sedicesimo episodio di Filosofia dal Futuro, la newsletter di Speculum!
Questa settimana vi presentiamo il secondo guest post della stagione, abbiamo infatti un ospite speciale: Lorenzo Casavecchia.
Lorenzo (in arte locci.jpg) è un architetto
di stanza a Roma, dove lavora per lo Studio Fuksas
. In particolare, si occupa di architettura speculativa
e design d’interni.
In realtà, come sapranno i veri fan
, non è la prima volta che Lorenzo compare su Speculum!: è infatti lui l’autore sia del nostro Tarocco che del nostro bellissimo Poster (link più giù per acquistarli); ma è anche comparso su Reincantamento con Blume #1 e ha curato la grafica di Geografia Aumentata (qui in versione audio).
Oggi, Lorenzo ci presenta un estratto dal suo progetto d’esordio: La città come forma di vita. Visioni Radicali dall’Agenda 2030.
L’Agenda 2030
è un documento contenente una serie di 17 obiettivi interconnessi, definiti dall'Organizzazione delle Nazioni Unite come strategia "per ottenere un futuro migliore e più sostenibile per tutti". Questi obiettivi di sviluppo sostenibile mirano ad affrontare un'ampia gamma di questioni relative allo sviluppo economico e sociale, che includono la povertà, la fame, il diritto alla salute e all'istruzione, l'accesso all'acqua e all'energia, il lavoro, la crescita economica inclusiva e sostenibile, il cambiamento climatico e la tutela dell'ambiente, l'urbanizzazione, i modelli di produzione e consumo, l'uguaglianza sociale e di genere, la giustizia e la pace.
Quello che Lorenzo propone, a partire da questi 17 obiettivi, è una speculazione immaginifica e radicale di come l’architettura possa dialogare con il futuro, ed in particolare con il futuro disastroso che il cambiamento climatico ci promette. Al contempo però, è anche un riflessione intima su cosa può essere l’architettura. Quello che emerge sono cinque progetti di cinque città “antiutopiche”, per immaginare un futuro che si spera non debba mai realizzarsi. Il lavoro, in particolare, si articola in un dialogo costante tra delle immagini - render - di queste città dalle forme ipergeometriche, immerse in ambienti metafisici deserti, e testi scritti, che raccontano il cammino di questa figura architettonica impersonale - l’autore - che si dipana fisicamente ed emotivamente in questi luoghi.
Lasciamo quindi la parola a Lorenzo. Potete poi recuperare il progetto nella sua interezza sul suo profilo Instagram: locci.jpg
Vi ricordiamo che se vi piace il nostro progetto potete seguirci su
o entrare nel nostro canale telegram per discutere più approfonditamente idee e proposte
Infine, se apprezzate particolarmente il lavoro che facciamo, potete offrirci un caffè (e ricevere in omaggio il bellissimo poster)
Noi ci vediamo l’anno prossimo! Buone Vacanze :)
La città come forma di vita. Visioni radicali dall’agenda 2030
Che significa allora: ich bin, io sono? L’antica parola “bauen”, a cui si ricollega il “bin”, risponde: Ich bin, du bist; vuol dire: io abito, tu abiti. Il modo in cui tu sei e io sono, il modo in cui noi siamo sulla terra, è il bauen, l’abitare. Essere uomo significa: essere sulla terra come mortale; e cioè abitare.
Martin Heidegger
Esiste uno spazio vuoto e neutro che coincide con la nostra attività critica, dove nasce ogni singola volontà espressiva. Un’area erosa tra l’«essere» e l’«esistere» che descrivo come un niente tra la mia solitudine e ogni evento cosmico; è qui che si colloca il mio lavoro, l’idea originaria di voler raccontare il mondo attraverso l’architettura. Il progetto è quindi un mio primo tentativo di dialogo.
Tramite l’Agenda 2030, un programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità, sottoscritto nel 2015 dall'ONU, è stato possibile codificare cinque fatti centrali
della Terra: biosfera, società, tecnologia, economia e partenariato globale (ovvero la cooperazione da parte degli Stati su obiettivi condivisi).
Il lavoro trae origine dai 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030 ma non inquadra programmi d’azione per un futuro prospero: piuttosto evidenzia i problemi irrisolti, messi in luce dalla crisi climatica.
In più, queste macrosfere non concernono soltanto un mondo che si fonda tra natura e artificio - ovvero il campo dove l’architettura lavora - ma definiscono anche l’«abitare
sulla terra», e quindi ogni principio d’idea
di architettura.
Partendo da questi cinque temi ho disegnato immagini aberranti, accompagnate da narrazioni in terza persona, di quelle che Claude Lévi-Strauss ha definito le «cose umane
per eccellenza»: le città.
Karl Mannheim ha parlato della realtà esistente così com’é come di una topia. Se riprendiamo il framework dei Superstudio sull’utopia e antiutopia - intendendo quest’ultima come quei luoghi e ordinamenti sociopolitici che si spera non debbano mai realizzarsi - immaginandoli puramente in funzione catartica, allora queste mie città trascinano nella loro fisionomia alcuni problemi irrisolti, rifiutando le false speranze di qualsivoglia utopia. Le città vivono tra i detriti e le ossa di una natura ai limiti delle sue possibilità, abitano l’antiutopia. Nel mio lavoro, le città si mostrano sotto forma di solidi lontani da qualsivoglia retorica d’immagine: sono rudimenti
, semi di un linguaggio universale che evidenziano e svelano ciò che nel mondo è guasto, a volte inombrato dalla società o camuffato dalla quotidianità.
Il lavoro è un percorso che inizia con un manifesto
in prima persona: una presa di coscienza di un individuo che indietreggia rispetto allo spazio esterno, fino a ritrovarsi oltre la sua pelle. Forse dubita così tanto della realtà da non guardarsi più attorno. Al termine di questo, le cinque geometrie appaiono. Seguono un disegno sequenziale che deriva non solo dal programma sottoscritto nell’Agenda dell’ONU 2030, ma anche da una omogenea e progressiva narrazione implicita del progetto nella sua totalità e da un’ordine causa-effetto di dati certificati sulla crisi climatica.
Manifesto
Il confine che separa la Terra e il nostro spirito è forse una dannazione. È uno scherzo della vita che la mia esistenza sia legata a una bellezza decadente e guasta; che ogni eco di tristezza e solitudine di colui che è dimenticato da questa città - anche lontano, così lontano da non esistere - riesca a farsi ascoltare e raccogliere dal mio sguardo.
E mi rendo conto adesso che la libertà è silenzio e buio, poiché alla luce, l’immagine vuole lasciarsi misurare da chi la osserva.
Ogni suo valore si distende verso la mia mente, che non accorcia il dramma. Moribondi e infelici, la società vi allontana da sé! voi, che non potete nascere nel bel mondo, rimarrete sepolti in un velo di carne! Di questo ordine se ne nutrirà il culto dell’egoismo che, con forti mani, spreme i frutti della natura, ne sparge ignobili avanzi e ne pianta tra menzogne il seme.
Sradica l’uomo dalla terra, ma non promette cielo a nessuno.
La sofferenza non è esilio, al contrario, svela cosa c’è di vero oltre la realtà.
Quel confine mi lega a qualcosa di più prezioso di me stesso, di ogni mio desiderio o ambizione ed è lì che devo andare.
Devo raggiungere la soglia, quel niente che si trova tra l’intimità della mia solitudine e ogni evento cosmico.
Discendo quindi in un sogno, per dubitare del reale e riorganizzare lo spazio unico che c’è tra me e il mondo.
Quando la notte giunge nella mia città, l’intonaco dei palazzi si dissolve nel buio.
Come se il cielo divenisse mare, cammino sul fondale, prima tra cemento e ferro, poi lungo distese verdeggianti. Più avanti, accanto a grotte scoscese, immerso nella loro anima, ne comprendo i segreti.
I miei passi mi conducono in spazi sempre diversi.
Oltre, una rassicurante foschia, mi appaiono davanti diciassette sentieri che, come piccole primavere, consolano il mio cuore.
Queste sono le prime forme di metamorfosi del nostro mondo. L’uomo stesso ne è l’architetto. Nella sua agenda universale, egli progettò gli obiettivi e ne delineò i traguardi, per raggiungere l’equilibrio tra prosperità, umanità e natura. E come per un pellegrino le stelle sono la bussola nel deserto, la tecnica sarà la guida del nostro divenire.
Sono le vie della salvezza quelle che si diramano lungo i sereni altopiani.
Ai loro margini, morbidi steli verdi crescono sopra i miei pensieri. Inondati dalla luce, una peluria appena visibile li abbraccia in un alone bianco che sfuma nell’aria dorata. Nessuna pianta piega il proprio corpo o le proprie foglie alla ricerca di un chiarore.
Appaiono come la luce di loro stesse.
Cammino e mi perdo in un reticolo di strade che si intrecciano, si disperdono, per poi ritrovarsi e ramificarsi ancora.
Non che io sia sazio di questo incanto, ma ogni elemento vive nella misura della sua perfezione. non c’è erba che non germogli o roccia sporca di terra. Non un frutto amaro o fiore senza il suo insetto.
Dolore e fame non possono mostrarsi, poiché in questo regno la violenza è camuffata in bellezza.
Sono nell’utopia, dove tutto è perfetto nella sua finitudine.
Ignoro dunque ogni traccia, ogni albero, lago, pietra o cippo, per uscire da questa prigione volontaria che rinchiude la mia mente e blocca il mio viaggio verso quel confine.
Fino ad ora, ho solo osservato il delirio di una speranza.
Come Dedalo, devo elevarmi da questo labirinto. Salgo dunque verso il cielo celeste abbandonando l’inganno. Lascio che lo spazio indietreggi, cercando l’immagine della dannazione in un luogo assolutamente altro.
Dall’alto vedo comparire la miniatura di una città.Un luccichio riflette il suo invito a varcarne il perimetro. Nell’istante in cui il bagliore viene meno, riesco a scorgerne le costruzioni che si propagano verso l’alto, per poi abbassarsi nuovamente sul suolo.
Chissà quali fatiche e memorie si conservano tra quelle architetture!
Oltrepassare le nuvole, lo spettacolo alle mie spalle è incantevole.
Pulviscoli di luce filtrano da strette aperture, come lame tagliano quel guscio di bianco velluto fino a scomparire nel vuoto.
Fluttuo in un cielo nero, fra calma e silenzio.
Ad un tratto, un muro verticale mostra il suo corpo.Credevo di essere ai margini del mio sonno, ma adesso che ne tocco la superficie, la parete diviene piano orizzontale.
La sua materia sembra come pelle senza vene, illuminata da una luce neutra senza origine. Sto osservando lo strato ultimo dell’universo o forse è quello più superficiale di un abisso, dove le ombre sbiadiscono nella delicatezza di un grigio perla.
Da questo contatto, continuo a percepire l’agenda universale dell’uomo. Se tra quei fiori invisibili coglievo la bellezza ideale di un mondo futuro, in questo luogo ogni obiettivo prossimo è un problema presente.
Di quel regno ne continuo a conservare l’attitudine morale, ma l’oggetto è sempre stato la realtà esistenziale.
È la consapevolezza non solo di me stesso, ma di tutte le realtà che assorbo attorno, di cui inombro le più intime manifestazioni.
Se questa soglia fosse davvero un corpo ne sarebbe di certo il tronco, da cui irradiano gli arti e la testa. Poiché tra polvere e vento, cinque sono gli esseri che rappresentano la trasposizione della mia coscienza.
Sono la cosa umana per eccellenza: le città, il cui linguaggio contiene i codici dell’umanità, lontane da quel pantano artificiale di segni di cui si sovraccarica il mondo nell’era del capitalismo globale.
Stabilizzano la vita attraverso i simboli eterni e puri della geometria, ma non ne fanno del loro corpo un posto affidabile! Sono, al contrario, il riflesso di tutto quello che rifiutiamo vedere, di ciò che nascondiamo nel sottosuolo.
Sono nell’antiutopia.
Successivo al manifesto, la prima città è letteralmente una soglia
: il tema è la biosfera e i dati inseriti indicano la quantità di emissione di CO2 nell’aria. Il cambiamento climatico non sconvolge attualmente solo le economie nazionali ma anche gli ecosistemi terrestri e marini. Per tutti gli esseri viventi
del pianeta si prevede un futuro peggiore rispetto al nostro presente.
L’ultimo capitolo, invece, ha come titolo “La Trasformazione
”: il tema è il partenariato e i dati riguardano l’aumento del calore degli oceani.
Al calore delle stelle la quinta città si mostra. I corpi camminano e generano forme sulla superficie bianca: lettere nere in un continuo dialogo con l’universo. I segni estrudono successivamente nell’intimità di un corpo euclideo: un parallelepipedo rettangolo sviluppato dall’estensione della materia lungo le coordinate X, Y e Z, allegoria di un modello spaziale umanizzato, vagante nell’universo. Da questo contatto, la materia prende vita e compone il principio di un’idea. Quest’ultima narrazione si conclude con la frase: “Vedere oltre la forma significa osservare la profonda natura dell’uomo”. È forse questo il significato ultimo del lavoro? In realtà, è solo un frammento di un continuo dubbio sull’idea stessa della disciplina. Bruno Zevi separa, in Architettura in nuce, le definizioni dell'architettura in “Funzionalistiche e tecniche” e “linguistiche”. Una definizione è linguistica quando: ”la ricerca di leggi determinanti l’espressione architettonica è alla base delle interpretazioni formalistiche, astratto-figurative, puro-visibiliste e fisio-psicologiche.”
Dunque, io credo che, se si volesse dare una definizione linguistica, l’architettura è un qualcosa di estremamente sincero: si nasconde sotto la luce e lì resta immobile. Ma, piuttosto che chiedersi cosa essa sia è necessario sapere dove essa risiede. Camminarle attorno, osservarla. L’unica cosa di cui sono certo è che l’architettura non si esaurisce nella pianta e nella sezione di un qualsiasi volume, né tantomeno confina con una serie di prospetti. Il mio lavoro non ha mai abitato alcun perimetro se non il mio corpo tra la mia mente e il mio spirito.