Ciao! Eccoci, al primo numero di Filosofia dal Futuro
, la newsletter di Speculum
.
In questo numero cominceremo la nostra speculazione da un non-luogo: l’Utopia.
Troverete un’introduzione critica al tema e un articolo di Vincenzo Grasso sull’ecotopia. Finiremo con TRIP
, i nostri consigli di lettura.
Introduzione
Nel discorso comune siamo abituati ad intendere il significato del termine utopia in modo ingenuo, come il risultato esclusivo di quel sogno che ci porta a contrastare la condizione attuale dell’esistenza del mondo: la venuta della società perfetta, guidata dall’uguaglianza; il frutto del travaglio negativo dell’individuo e della sua immaginazione capace di destituire con il pensiero lo status quo e rifondare.
Tuttavia, l’Utopia va considerata, prima di ogni altra rappresentazione, un luogo fittizio da intendere come un non-luogo a partire dall’opera inauguratrice di Thomas More del 1516. Il neologismo di More ha dato seguito a una proliferazione di concetti sviluppatisi intorno ad esso (eutopia, ecotopia, eterotopia, distopia).
In questo spettro di variazioni concettuali, bisogna ricordare che ogni Utopia è frutto del proprio tempo e per questo nessuna costituisce modelli intramontabili o esenti dallo strumento dell’analisi critica: il progetto del mondo a venire o di quello trascorso si è costituito per molto tempo come la proiezione di un individuo determinato.
Fino al XX secolo, infatti, inseguiamo la pratica utopica esclusivamente attraverso le narrazioni del maschio, che si rende creatore dell’incubo in cui vive e architetto della sua stessa soluzione: l’Utopia di More si regge su una struttura gerarchica dove le donne sono soggette ai propri mariti, così come i figli ai genitori e i giovani agli anziani; la Nuova Atlantide di Bacon non compie significativi passi avanti sul tema dell’equità di genere.
Ancora, è essenziale come la letteratura utopica abbia avuto origine in quei secoli della modernità segnati dal superamento dei confini alla scoperta di nuove terre. Non a caso Raphael Hythlodaeus, uno tra i personaggi principali de L’Utopia, dichiara di aver preso parte con Amerigo Vespucci alla spedizione alla scoperta dell’America. Risulta chiara l’ispirazione tratta dalle narrazioni di viaggio, il tema della scoperta della nuova terra e la conseguente occupazione. Così, alla sua nascita, il genere utopico ha un carattere strettamente europeo. Come fa notare L. T. Sargent in Colonial and Postcolonial Utopias, il concetto di utopia nel Seicento esibisce somiglianze di famiglia con quello di nuovo mondo e di colonia: la partenza verso terre incognite e la promessa di un futuro migliore con l’idea di fondazione di nuove istituzioni politiche, economiche e sociali dal nulla (che nella storia è coinciso con l’eradicazione delle popolazioni indigene di quegli stessi territori che rappresentavano ai migranti europei la materializzazione di un paradiso artificiale). Di conseguenza, prosegue Sargent, non c’è da stupirsi che nel Settecento il genere utopico sia divenuto particolarmente prolifico nelle colonie britanniche, spagnole e portoghesi; ma anche che l’utopia novecentesca, mutata geneticamente in distopia, proietti il suo sogno nella colonizzazione e terraformazione di pianeti e satelliti, a volte sottolineando in modo esplicito la necessità di sfruttarne le risorse con il fine di approvvigionare la Terra.
Il pensiero utopico
ci obbliga a confrontarci con una domanda: quale futuro vogliamo per il nostro pianeta?
Ecologia della Bellezza
di Vincenzo Grasso
1. Come la Natura
è diventata utopia
Tra tutte le declinazioni dell’utopia, quella più vicina allo spirito del tempo è quella che ragiona sull’ambiente.
L’utopia ecologica o ecotopia è divenuta, nell’Antropocene, quella che dovrebbe guidare e costruire le nostre rappresentazioni ottimistiche del futuro al fine di invertire la catastrofe ambientale non così lontana. L’Antropocene come era geologica diventa l’era dove la natura viene mutata artificialmente dall’agente umano. In contrasto a ciò, la natura disvela la sua reattività nel suo stesso essere non solo creatrice ma anche distruttrice, ponendoci quindi davanti alla necessità di invertire il nostro modo di stare al mondo.
I movimenti ambientalisti guidati dalle nuove generazioni hanno raccolto la sfida e rilanciato in modo programmatico la necessità di attualizzare un pianeta libero dall’impatto antropico. Il rischio di scivolare in una catastrofe climatica e di portare con noi anche le altre specie si annuncia attraverso lo spettro dell’acidificazione degli oceani, la distruzione degli habitat naturali, l’attacco alla biodiversità, il cambiamento climatico. Queste minacce, dalla cui concretizzazione dipende il futuro dell’intero pianeta, si manifestano attraverso inondazioni, uragani, incendi, siccità, epidemie e altre esperienze della catastrofe che progressivamente aggiungiamo al nostro archivio. È questo ciò che accade quando si viola il contratto naturale?
L’Antropocene, si potrebbe dire, costituisce la rottura di un contratto immediato e precedente a quello sociale, il contratto naturale così come pensato da M. Serres nell’omonimo saggio. La specie umana e la natura stanno in una relazione di profonda asimmetria, mentre una si esplicita come dono della creazione, l’altra è invece divenuta paradigma del danno. Inoltre, questa asimmetria, sempre secondo il filosofo francese si calcifica nella dicotomia mondiale/mondano; l’ultimo, il reame della cosa pubblica, circoscritto nell’ordinamento sociale, estromette la natura dal suo insieme; questa giace in una dimensione mondiale, attraversata da forze e legami con cui l’individuo occidentale delle città ha perso contatto.
L’estromissione della natura dal mondo degli uomini si riflette nel modo in cui la nostra civiltà contemporanea concepisce e occupa lo spazio, ridisegnando la geografia: alle foreste sostituiamo nuovi centri urbani o coltivazioni intensive e, all’interno delle nostre città, procediamo con l’eradicazione o la circoscrizione degli elementi naturali in zone separate, spazi verdi, contribuendo all’aumento di un distacco che ha reso la natura nell’immaginario collettivo della società occidentale un artefatto esotico. All’interno della metropoli la natura si presenta sublimata nel giardino, come esemplificato nel terzo principio dell’eterotopia foucaultiana: i giardini sono eterotopie, letteralmente spazi altri, reali e individuabili geograficamente che rovesciano gli spazi sociali; l’esempio più antico è appunto quello del giardino, incompatibile con lo spazio urbano che lo circonda che si manifesta come uno spazio sacro. Il giardino è un’eterotopia universale e felice che rappresenta una porzione di mondo e la sua totalità. Il giardino si mostra come luogo surreale, elemento estraneo e di rottura alla continuità della geografia metropolitana. Per l’uomo moderno questo recinto sacro e felice diventa la rappresentazione della natura, mostrandosi come utopia situata, la più immediata a cui questi possa accedere.
La natura non è solo un’entità recintabile in uno spazio appositamente concepito, ma un termine trascendentale che si trova in tensione con gli infiniti suoi prodotti, materiali e concettuali, i quali tendono a collassare in essa. In Ecology without Nature (2007), Morton descrive la natura come uno spazio concettuale che prolifera in una disseminazione di termini metonimici, un pluralismo di significanti che vengono così individuati (p. 14): (1) la stessa essenza simbolica, per cui la natura è sia l’acqua che il libero mercato, sia l’uragano che le emissioni in eccesso di anidride carbonica; (2) la forza della legge, la normatività che determina l’innaturale, ciò che è contronatura; (3) un vaso di pandora che trattiene insieme gli oggetti del nostro desiderio: impulsi, paura e fantasie (la natura diventa il desiderio di un’utopia ecologica come il terrore di un Armageddon ambientale). È proprio dell’Antropocene lo sviluppo di un armamentario lessicale e concettuale in grado di coprire lo spettro della catastrofe, costruendo in negativo quella rappresentazione della natura come utopia ecologica.
L’utopia ecologica si configura come il progetto di ripristinare l’equilibrio armonico tra tutti gli attori presenti sul pianeta, ma soprattutto riguarda profondamente il ruolo della nostra specie e la capacità di ridimensionare il nostro impatto. L’ecotopia deve trovare la sorgente della sua forza nella tensione negativa con lo scenario presente e con lo spettro più oscuro del futuro se vuole riscoprire il suo stato originario e meraviglioso. Non è possibile quindi immaginare l’ecotopia alla maniera di alcune narrazioni fantascientifiche o di quelle promosse da Elon Musk, che vede un possibile futuro nella terraformazione di Marte attraverso un bombardamento all’idrogeno. La realizzazione di un’utopia ecologica non può in alcun modo coincidere con l’accettazione dello stato mortuario del pianeta e il progetto di terraformazione di un altro pianeta del nostro sistema solare. L’utopia ecologica deve riuscire ad evadere dal suo significato di non-luogo ed essere attualizzata nel più prossimo orizzonte terrestre. Ma quale motore può davvero spingere un cambiamento del genere? È sufficiente il terrore della catastrofe?
2. L’Ecologia della paura
In un articolo del 2013, dal titolo Apocalypse Now! Fear and Doomsday Pleasures, Erik Swyngedouw sviluppa una analisi del tono apocalittico che permea la narrazione climatica ormai sussunta dalla logica capitalista sotto il segno della sostenibilità, una nozione opaca necessaria esclusivamente al proliferare di nuove economie. Questa ecologia della paura, accompagnata dalla soluzione sostenibile, istituisce un circuito in alcun modo funzionale al miglioramento della condizione del pianeta, trovando solo una via di fuga al vero problema (quello appunto originato dalla mancata accettazione del fallimento dell’economia capitalista). All’interno di questo panorama, l’ecologia della paura, lungi dall’essere contrastata da un pensiero radicale in grado di affrontare in modo critico la questione ambientale insieme a quella economica, diventa, per citare A. Badiou, il contemporaneo oppio dei popoli, una religione sottocopertura che sfrutta il terrore millenario del destino dell’umanità, istituendo nuovi strumenti di controllo e ossessioni.
Scrive Swyngedouw:
Nonostante le significative differenze, entrambe le narrazioni catastrofiche (quella ecologica e quella economica) mostrano una similitudine inquietante [...]. Mentre l’Armageddon ecologico punta a un universale distruzione delle specie, la catastrofe economica si mostra peculiare in quanto esclusivamente legata al pericolo della fine della reiterazione delle relazioni capitaliste. Malgrado, la mobilitazione discorsiva della catastrofe segua, in generale, strade simili. [...] Mentre la catastrofe denota l’irreversibile e radicale trasformazione dell’esistente in una spirale di declino abissale, la crisi è una condizione congetturale che richiede una particolare attenzione tecnico-manageriale da parte di coloro che sono in carica o chiamati ad esserlo. La nozione di crisi promette inoltre la possibilità di contenere la crisi in modo da posporre o schivare la rivelazione distopica. L’impiego di un linguaggio catastrofico serve primariamente a mutare l’incubo nella gestione della crisi, così da assicurare la serietà di una situazione ma non la sua irrimediabilità. [...] Il nutrimento della paura, che è invariatamente seguito da un insieme di aggiustamenti tecnico-manageriali, serve precisamente a de-politicizzare. Alimentare la paura è necessario anche al fine di preparare la scena a coloro che promettono salvezza, ad insistere che il Grande Altro non esiste e a seguire il leader che ammette la gravità, ma rassicura comunque che la situazione (ecologica, economica o qualsiasi altra) del paese è sotto controllo. Possiamo tranquillamente continuare a fare shopping.
Per ritornare all’utopia: possiamo quindi supportare l’analisi di Morton sui nuovi significanti scaturiti dal concetto di Natura in rapporto con l’emergere dell’Antropocene; la natura nell’Antropocene è rappresentata attraverso l’armamentario concettuale della catastrofe, ma siamo sicuri che questo sia fruttuoso ad un cambio di passo?
Come appunto notano Swyngedouw e Badiou, l’ecologia è diventata un’ecologia della paura dove le cause dei problemi ambientali e sociali derivanti non sono associate alle politiche liberali e alla struttura economica della modernità, ma vengono estromesse e disincarnate; non individuate come le entità nemiche contro cui schierarsi. Questo spostamento di bersaglio, infine, si risolve nell’aspirazione a un nuovo modello utopico, verde e capitalista al tempo stesso. La risposta sostenibile alla paura generata dalla narrazione apocalittica dell’ecologia assume i tratti di quella che Žižek chiama postpolitica: una politica che risolve il dissenso e lo sforzo attraverso la pianificazione manageriale e l’amministrazione delle governance (come il protocollo di Kyoto o l’Unione Europea; cioè istituzioni che assorbono gli incarichi delle politiche dei governi locali, sempre all’interno di obiettivi e interessi legati a ordini politici ed economici di stampo neoliberale).
3. L’Ecologia della bellezza
Una modalità per restituire bellezza al pianeta che abbiamo ferito è attraverso quelle pratiche di riparazione e restituzione, che passano dal diritto, come ad esempio l’istituzione della natura come soggetto giuridico attraverso il concetto ecuadoriano di Buen Vivir, alla tecnologia. È auspicabile una tecnoutopia dove la scienza non sia antropocentrica ma biocentrica? Secondo S. Cohen la de-estinzione, un processo che coinvolge pratiche di riproduzione selettiva e ingegneria genetica, può servire come modello tecnologico non orientato nei confronti esclusivi dell’uomo, ma del benessere dell’intero pianeta.
Lo stambecco dei Pirenei (estinto nel 2000) è stato la prima (sotto)specie a essere stata in un certo senso de-estinta. Un cucciolo, clone dell’ultimo esemplare, è venuto alla luce nel 2009. Tuttavia, a causa di un difetto ai polmoni, è sopravvissuto solo per qualche minuto. Un altro progetto di de-estinzione tramite clonazione ancora in corso coinvolge la rana a gestazione gastrica. Questa specie, la cui femmina incuba le uova nel proprio stomaco, è estinta fin dagli anni ’80. Attraverso la clonazione, in Australia, il team del Lazarus Project avrebbe creato alcuni embrioni vitali. Un team statunitense sta invece lavorando, attraverso l’ingegneria genetica, per far risorgere il piccione migratore (estinto nel 1914) dal DNA del piccione codafasciata. Team coreani e russi stanno lavorando per ottenere sufficiente DNA dai resti del mammut lanoso sepolto nel permafrost siberiano, per permettere l’uso dell’ingegneria genetica, utilizzando l’elefante asiatico come surrogato. Infine, un progetto in Sudafrica sta provando a riportare in vita, con la tecnica del breeding back, l’estinto quagga dalle zebre. In Europa un progetto simile tenta dal 2008 di resuscitare l’uro, antenato del bovino domestico.
Alla soglia della sesta estinzione di massa che potrebbe, secondo alcune previsioni, portare via con sé fino al 50% delle specie, l’abisso dell’esistente di cui parla Swyngedouw sembra irrimediabilmente vicino. Una tecnoutopia devota alla natura potrebbe essere una via su cui riflettere, dato anche il rilevante impatto antropico di questa estinzione. Ritornando all’asimmetria doni-danni, la responsabilità della sesta estinzione di massa non è ascrivibile all’impatto di un meteorite, ma all’espansione sregolata della nostra specie, alla devastazione degli habitat, allo sfruttamento delle specie e al dilagante inquinamento che produciamo, senza dimenticare l’innalzamento della temperatura globale. Si tratta, in altri termini, di una estinzione artificiale.
Molte delle critiche mosse alla tecnoutopia promossa da Cohen hanno come nucleo l’accusa di voler istanziare una pratica contro-natura e nascondono malamente un certo atteggiamento conservatore nei confronti del progresso scientifico attraverso argomentazioni che si applicherebbero a tecniche di conservazione della specie usate già adesso e che non sono invece soggette alla stessa preoccupazione, come il breeding-back o la progettazione di nuovi organismi, propria dell’uomo sin dall’origine dell’agricoltura. Riportare in vita le specie scomparse è più artificiale dell’averne causato l’estinzione?
Ancora, la tecnoutopia di Cohen ha un valore ecologico proprio per la sua capacità di istituire pratiche riparatorie nei confronti della natura senza correre alla terraformazione del primo pianeta vicino dove sperare di non reiterare gli errori che hanno condotto all’abbandono della Terra. In un certo senso, la de-estinzione si configura come una pratica di cura nei confronti delle specie non-umane e soprattutto nei confronti del pianeta tutto; il pianeta Terra, concepito come un organismo complesso, riceve benefici ambientali dalla reintroduzione delle specie estinte artificialmente, i quali si traducono nel ripristino conseguente di ecosistemi e meccanismi naturali che contribuiscono al mantenimento della qualità delle risorse naturali. Una pratica del genere avrebbe senz’altro un impatto culturale e storico in grado di originare una consapevolezza ecologica senza introdurre strutture di classe con il fine di dimostrare l’importanza delle risorse vitali e perpetuando in modo subdolo la stessa logica della paura discussa in precedenza. Se quindi l’utopia ecologica si configura come il progetto di ripristinare l’equilibrio armonico tra tutti gli attori presenti sul pianeta, la de-estinzione, che si prefigge nient’altro che questo obiettivo, nasce da quello stesso spazio di desiderio per un mondo a venire che caratterizza la prassi utopica. Non si tratta di migliorare la natura, ma di restituire quella bellezza che per il nostro pianeta coincide con una condizione di benessere ambientale, di simbiosi tra ecosistemi preservati.
La de-estinzione è anche una pratica estetica, dove il bello coincide con il buono, riscoprendo nelle idee del bene e della bellezza platoniche che l’estetica è etica. Data la possibilità di un’estetica ambientale, questa nella sua bellezza è in grado di causare il bene; davanti all’utopia di Gaia, lo stupore dei fenomeni naturali, il sublime kantiano, ispira quella rinnovata consapevolezza ecologica e fuga il circuito guasto dell’ecologia della paura.
Un’immagine utopica della natura è ciò che, con l’inasprirsi della crisi ecologica, si imporrà nell’immaginario collettivo sempre più come oggetto delle fantasie e delle speranze. L’utopia ecologica, quello scenario alternativo in cui la nostra specie è riuscita a superare per sempre la dicotomia natura-cultura salvando il pianeta dalla catastrofe climatica, sta invadendo il nostro spazio di desiderio. Il presagio oscuro al centro di un’ecologia della paura deve essere sovvertito da un approccio diverso all’ecologia stessa; quella metodologia propria della prassi utopica, che si realizza proprio in quello spazio del desiderio dove la tensione è scaturita dallo sforzo nel cambiare se stessi e il mondo intero . Si tratta di quello stesso sforzo che bell hooks definisce yearning, cioè il desiderio di un mondo a venire in cui questo mutamento si è attualizzato, che per essere raggiunto deve rimanere ancorato nello spazio del mentale come utopia. Un’ecologia della bellezza provvede quindi che quelle riparazioni dovute dalla nostra specie si esplicitino attraverso strategie di cura, dove la volontà di un pianeta sottratto alla catastrofe diventa la ragione dell’utopia verso cui ci impegniamo.
In attesa del prossimo episodio, TRIP:
> Shlomo Cohen, L’etica della de-estinzione, in Hypernature, Tecnoetica e Tecnoutopie dal presente; Kabul Magazine (2020)
> T. Morton, Ecology Without Nature: Rethinking Environmental Aethetics; Harvard University Press (2007)
> bell hooks, Elogio del Margine; Feltrinelli (1998)
> Kim Stanley Robinson, Trilogia di Marte; Fanucci (2020)
> Erik Swyngedouw, Promises of the Political: Insurgent Cities in a Post-Political Environment; MIT Press (2018)
> McKenzie Wark, Molecular Red: Theory for the Anthropocene; Verso Books (2015)
© Speculum: Filosofia dal futuro / GRASSO - LONGO - MATTEI